Luce in tempi bui: essere gay durante il Covid
Quando è scoppiato il primo caso di Coronavirus in Corea, io e i miei amici gay dicevamo per scherzo che avremmo dovuto stare attentissimi, perché, se si fosse sviluppato un focolaio nella nostra comunità, saremmo tornati indietro di decenni.
South Korea, Eastern Asia
Story by Megan Rothnie. Translated by Daniela Pratesi
Published on September 17, 2022.
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Nelle pestilenze la gente raramente mostra la parte migliore di sé
Sono gay e, anche se in Inghilterra vivo tranquillamente allo scoperto da anni, in Corea, dove ho insegnato inglese per due anni, la mia condizione è rimasta semi-nascosta. Nella mia scuola nessuno lo sapeva, ma tutte le settimane andavo nei locali gay di Itaewon, quartiere noto per i club, il cibo e gli stranieri. Itaewon è il piacere proibito degli expat, un cliché da turisti, ma i suoi club sono al centro della vivace scena queer di Seul.
Quando è scoppiato il primo caso di Coronavirus in Corea, io e i miei amici gay dicevamo per scherzo che avremmo dovuto stare attentissimi, perché, se si fosse sviluppato un focolaio nella nostra comunità, saremmo tornati indietro di decenni. I nostri club e i gay pride non sarebbero più stati tollerati. Le probabilità di approvare una legislazione liberale sarebbero diminuite e i vecchi stereotipi che vedono i gay alla pari di ratti appestati sarebbero stati convalidati. In Corea è ancora richiesto un test HIV quando si presenta la domanda di visto. Quando ci siamo riuniti a speculare sugli effetti che il Covid avrebbe potuto avere sulla nostra comunità già tanto stigmatizzata, la crisi dell’AIDS ha gettato un’ombra silenziosa – non volevamo essere incolpati di un’altra pestilenza. C’erano state decine di contagi da Covid legati alle chiese conservatrici, ma quello non contava: sapevamo che per noi sarebbe stato peggio.
A maggio, un uomo era stato in tre locali gay da asintomatico ed era venuto a contatto con centinaia di persone prima di essere risultato positivo al Covid. Quello era stato il maggior focolaio di contagio degli ultimi mesi. La mattina dopo, i media conservatori annunciarono con gran compiacimento che quell’uomo ‘forse’ era gay e, in men che non si dica, i giornali incolparono del contagio la comunità LGBT+.
Non appena uno straniero osava sentirsi male, tutta la città veniva a sapere l’età, il sesso, la nazionalità e tutti i posti in cui era stato nelle ultime due settimane.
In Corea, tutti gli Smartphone ricevevano notifiche di emergenza in coreano, per cui io attivavo Google Translate e ricostruivo le informazioni. Dopo il focolaio di Itaewon, abbiamo improvvisamente cominciato a ricevere notifiche in inglese – solo per Itaewon – che sollecitavano gli stranieri a sottoporsi al test. Il sistema di tracciamento del Covid aveva sempre avuto un’inclinazione nazionalista. I dati dei portatori venivano pubblicamente condivisi. Non appena uno straniero osava sentirsi male, tutta la città veniva a sapere l’età, il sesso, la nazionalità e tutti i posti in cui era stato nelle ultime due settimane. ‘Non sei uno di noi’, questo è quello che il governo voleva farci presente.
Ci fu un’esplosione di omofobia e di xenofobia. Il governo impose a tutti quelli che erano stati a Itaewon in quella settimana di maggio di sottoporsi a un test. Chi aveva fatto il test doveva comunicarlo alla propria scuola o al datore di lavoro, il che sarebbe stato come fare coming out. I media furono tempestati di storie che mescolavano insieme omosessuali e stranieri e incolpavano entrambi di avere diffuso il coronavirus col loro comportamento incauto.
Quella settimana non ero stata a Itaewon, ma l’amministrazione della mia scuola mandò degli insegnanti a farmi domande sui luoghi che frequentavo. Lo stesso accadde a quasi tutti gli stranieri che conoscevo. Addirittura, in un caso, la scuola telefonò al centro diagnostico senza il consenso dell’insegnante ed ebbe il risultato prima di lui. I coreani LGBT+ avevano già le proprie paure di essere scoperti, di perdere il lavoro e gli affetti. Almeno gli stranieri avevano un paese in cui tornare se le cose si fossero messe male – i gay coreani avevano molto di più da perdere.
Le voci si rincorrevano ovunque, l’atmosfera era tesa. Il 'super-diffusore' originario era coreano, ma questo non importava a chi con rabbia dava la colpa agli stranieri e ai gay. Certo, i tabloid sono crudeli e reazionari in tutto il mondo e tanti coreani si opponevano a quella retorica. Ma avere il laser puntato sulle comunità emarginate faceva male comunque. Il virus ha messo in luce chi era straniero e chi era coreano, chi era un estraneo e chi era normale. Noi e Loro. E per me, gay, straniera e di pelle scura, era perfettamente chiaro da che parte stavo.
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